domenica 2 aprile 2017



"L’OPERA D’ARTE E LA SUA COMPRENSIONE" 

Prof.ssa Leonarda Venuti Matteucci 

 L’opera d’arte come impressione ed espressione del proprio io è l’ineguagliabile linguaggio assumente una dimensione universale, paritetico a tutti, diretto ed efficace. Quando l’opera è esposta diviene raggiungibile da chiunque e davanti a essa la suggestione di chi ne gode è inesorabile: l’opera d’arte come azione del suo creatore rende inevitabile la reazione del pubblico ad essa. L’operato artistico si rivela, per suo effetto diretto, a tutti coloro in preda ad un anormale quanto speciale stato di coscienza, l’estasi, svincolato dalla realtà e accompagnato ad un senso di rapimento. Cortese ai tolleranti e agli attenti, a coloro che sanno pazientare, è sprezzante nei riguardi dei frettolosi e superficiali. L’incontro con essa, non dissimilmente dall’incontro con le persone, rende necessario andare al di là della prima impressione: non sempre quello che “vediamo” corrisponde a quello che “crediamo” di vedere. L’artista come emittente produttivo esige un destinatario scevro, svincolato da ogni pregiudizio. Il canale, il mezzo fisico che permette a emittente e destinatario di entrare in contatto risulta così evidente, e l’osservazione meticolosa è la sua chiave di lettura. Per divenire un esperto osservatore è indispensabile esercitarsi ad analizzare, descrivere e riflettere su ciò che si vede. Osservare non è un’azione facile, istintiva, ma richiede intelligenza, conoscenza e sensibilità; operazione complicata durante la quale non usiamo solo gli occhi, ma anche la mente: noi guardiamo con i primi, ma percepiamo con la seconda. Le immagini, qualunque esse siano, parlano, comunicano, attraverso un linguaggio fatto prevalentemente di segni, forme, colori. Esistono tanti tipi di immagini con funzioni diverse. L’uomo, per comunicare, oltre al linguaggio verbale, si serve di linguaggi non verbali fondati sull’intero arco delle capacità percettive: messaggi olfattivi, tattili, uditivi, visivi. L’opera d’arte, forma eclettica, completa, si esprime e comunica con uno o più o anche con tutti questi linguaggi, sottraendoli alla normalità, alla usualità del banale ed elevandoli a strumenti creativi. E’ qui che entra in scena l’educazione visiva che insegna il saper vedere e osservare, unitamente all’acquisizione della capacità di discriminare, riconoscere, confrontare, memorizzare, ricostruire, rielaborare e produrre messaggi visivi, individuare le relative strutture e funzioni, e interpretarne i significati. I linguaggi visivi sono costituiti dall’organizzazione di un insieme di segni in immagini, e, come il linguaggio verbale, hanno un’organizzazione, delle regole e delle strutture, una grammatica e una sintassi. Le immagini si formano, come le parole, grazie alle aggregazioni di segni fondamentali corrispondenti alle lettere dell’alfabeto. La forma e la struttura delle immagini rispondono a norme e principi che possono definirsi come la grammatica del linguaggio visivo; mentre la loro composizione costituisce la sintassi. Gli elementi grammaticali possono essere il punto, la linea, la superficie, il volume, la luce, il colore; mentre le regole sintattiche sono quelle relative allo spazio, al movimento, al ritmo, al peso, all’equilibrio e alla simmetria. A seconda dell’elemento visivo dominante si parla di linguaggio grafico, quando prevale il segno, linguaggio pittorico quando prevale il colore, linguaggio plastico quando prevale il volume, linguaggio spaziale, quando prevale lo spazio o quando quest’ultimo ha comunque un ruolo determinante, come ad esempio nell’architettura. Quindi un prodotto artistico nella maggior parte dei casi non è altro che il risultato del modo in cui gli elementi del linguaggio visivo vengono utilizzati per esprimere qualcosa. Un’opera d’arte mostra le abilità, le tecniche e la creatività dell’autore, riflette la sua personalità, la sua cultura, e quella del periodo e del luogo in cui è stata realizzata. L’opera d’arte, come fonte di energia, colloquia, interagisce con l’osservatore; essa, come soggetto, è lo psicoanalista a cui l’osservatore dice il “vero”. L’opera ha funzioni polivalenti, istruisce, insegna, e allo stesso tempo è fonte di introspezione, è il mezzo conoscitivo del proprio io, davanti ad essa risultiamo “nudi”, sinceri, per quello che veramente siamo e vogliamo, ogni rimozione tende a essere annullata. Come attività essenzialmente mentale determina una reazione psicologica ed emotiva. Non tutti vediamo allo stesso modo: in casi come questi si parla di interpretazioni dissimili di una stessa entità artistica. Alcuni particolari, forme e colori vengono percepiti e ricordati più facilmente, perché l’attenzione di ognuno si concentra su ciò che più lo interessa. Il capire un’opera d’arte, sia essa antica, moderna o contemporanea, è un’azione difficile e audace, per il rischio di scadere in banali interpretazioni semplicizzanti o in un atto di presunzione nell’ affrettato mal giudicare. Il senso maggiormente stimolato dalle opere antiche, era la vista o tutt’al più il tatto. Nell’arte contemporanea vi è la tendenza a un coinvolgimento percettivo globale in quanto oltre alla vista e il tatto, reagiscono ad essa l’udito e l’olfatto. Tutti noi siamo potenzialmente degli artisti. Inventare significa creare con l’ausilio della fantasia; tutti noi possediamo la “creatività”, cioè la capacità di vedere e pensare la realtà in modo diverso dall’usuale e di poterla reinventare come una cosa nuova. La creatività non è solo istintiva, riservata a pochi eletti, ma aumenta con la conoscenza. Essa è l’espressione più profonda di noi stessi, è l’originalità vera, il superamento degli stereotipi. Inventare non vuol dire forgiare dal nulla; “l’invenzione innovativa”, consiste nel creare nuove immagini utilizzando immagini note, con accostamenti imprevisti. Ad un osservatore inesperto queste realizzazioni possono addirittura sembrare deformazioni dovute all’incapacità di riprodurre il vero. Frasi come “L’arte deve essere capita da tutti, altrimenti non è arte”, “Che bello, sembra vero”, “Che brutto, non si capisce cosa rappresenta” oppure “Questo lo so fare anch’io”, sono solo alcune delle frasi spesso ricorrenti, grossolani stereotipi usati nel giudicare un’opera d’arte. E’ in realtà opera d’arte “bella” quella che si distingue da quei quadri, spesso accatastati sulle bancarelle delle fiere o sotto i portici delle vie cittadine, improbabili scimmiottature di autori moderni e contemporanei, oppure raffiguranti occasionali mareggiate, funghi, pere, paesaggi o fiori, solitamente abbinati a cornici finto-antiche in similoro. Una paccottiglia che però piace alla gente dal momento che costa poco ed è semplice da capire, non richiede cultura e impegno. Si tratta in genere di opere dozzinali, fatte in serie e in poco tempo, di effetto appariscente, dal banale accostamento di innumerevoli colori vivaci, sufficienti allo spettatore impreparato che le giudica “opere d’arte”, anche “belle”; esse sono invece tecnicamente scadenti, stereotipate nell’immagine, non suggeriscono alcuna emozione, ben lontane dalla vera opera d’arte. L’opera d’arte, come la bellezza personale ed esclusiva, è unica, non ne può esistere una copia. 

 Prof.ssa Leonarda Venuti Matteucci

sabato 26 giugno 2010

NO TAX ON FINANCIAL TRANSACTIONS




The speculation allows and makes possible the best price for the final user and makes markets more efficient and transparent: this is an economical law, but interested parasites have made the brainwashing to the people persuading the inexperts to think the opposite one. The speculation is an occasion, an opportunity FOR ALL (anyone can invest in a fund) for make small earnings and it must be therefore boosted, because it produces wealth, and not be taxed.

NO TAX IS EVER IN FAVOUR OF THE PEOPLE, ALL TAXES ARE AGAINST THE PEOPLE.

The state does not solve problems, the state is the problem (Ronald Reagan).

From over a century the fiscal pressure did only ascend, robbing citizens, workers, families, unbalancing the market, twisting the free competition, subsidizing patron-and-client, parasitic, oppressive unwieldly bureaucratic organizations.
Today absolutely we should invert such tendency: no new tax should be created, no present tax should be increased, all the present taxes should be decreased and/or abolished.

ANY STATE’S MASTER, RULER, POTENTATE WICH IMPOSES A NEW TAX OR INCREASES AN EXISTING TAX IS A TYRANT AND A ROBBER, INDEPENDENTLY FROM WHO AND WHAT HE’S GOING TO TAX.

THE ULTRARICHES, THE FAMILIES MASTER AND OWNER OF THE STATES, DO NOT ESCAPE TAXES, BUT COLLECT THEM.

For all this:

NO TAX ON SAVINGS AND ON THE REVENUES FROM SAVINGS

NO TAX ON PERSONAL FINANCE INVESTMENTS

NO TAX ON BONDS, STOCKS, YIELDS, DIVIDENDS AND CAPITAL GAINS.

NO TAX ON FINANCIAL TRANSACTIONS

Filippo Matteucci
Italian Privatist Economist for Global Free Trade


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NO TAX ON SAVINGS – NO ALLA TASSAZIONE DEL RISPARMIO
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For reading:

http://epistemes.org/2008/01/10/dieci-buone-ragioni-per-non-tassare-le-rendite/
Articolo di Benedetto Della Vedova, Piercamillo Falasca e Mario Seminerio

http://www.tradersxsempre.com/public/forum/index.php?showtopic=1253&pid=135606&mode=threaded&start=
(intervento di Luciano Priori Friggi)

http://www.lewrockwell.com/block/block160.html
(articolo di Walter Block)

http://www.lewrockwell.com/paul/paul334.html
(articolo sull’Inflation Tax di Ron Paul)

http://www.clubeconomia.it/articoli/articolo.php?id=553
(articolo di Gian Battista Bozzo)

http://www.libertiamo.it/2010/01/12/teso-a-boeri-ma-esistono-le-rendite/comment-page-1/#comment-10224
(articolo di Adriano Teso)

http://www.italia-risparmio.it/finanza/rendite_finanziarie_ipotesi_sugli_effetti_di_un_aumento_di_tassazione.php
(articolo mio)

http://www.fff.org/freedom/0293c.asp
(articolo di Victor Niederhoffer)

Proprietà privata e proprietà pubblica dello stato in Hans-Hermann Hoppe
http://www.filosofiapolitica.net/showArticle.asp?ID=03-02-09-Hoppe&IDArea=2&dateReview=03-02-2009&typeMenu=0&showMenu=true
e
Principi di economia privatista
http://www.finanzaediritto.it/articoli/principi-di-economia-privatista-4096.html

Wikipedia – Mobilità sociale
http://it.wikipedia.org/wiki/Mobilit%C3%A0_(sociologia)

www.hanshoppe.com

www.libertarianism.com

www.lp.org

http://democraziaturnaria.splinder.com

www.libertarian.co.uk

http://mises.org

Due parole sul sistema fiscale
http://paolofranceschetti.blogspot.com/2009/08/cosa-serve-la-crisi-finanziaria-parte-2.html
http://paolofranceschetti.blogspot.com/2009/05/il-sistema-in-cui-viviamo-il-sistema.html

www.ronpaul.org

http://propertyandmarket.ilcannocchiale.it/

domenica 20 giugno 2010

Block: DEFENDING THE SPECULATOR


Defending the Speculator

by Walter Block


Excerpted from Defending the Undefendable. An MP3 audio file of this article, read by Jeff Riggenbach, is available for download.

"Kill the speculators!" is a cry made during every famine that has ever existed. Uttered by demagogues, who think that the speculator causes death through starvation by raising food prices, this cry is fervently supported by the masses of economic illiterates. This kind of thinking, or rather nonthinking, has allowed dictators to impose even the death penalty for traders in food who charge high prices during famines. And this is done without the feeblest of protests from those usually concerned with civil rights and liberties.

Yet the truth of the matter is that, far from causing starvation and famines, it is the speculator who prevents them. And far from safeguarding the lives of the people, it is the dictator who must bear the prime responsibility for causing the famine in the first place. Thus, the popular hatred for the speculator is as great a perversion of justice as can be imagined. We can best see this by realizing that the speculator is a person who buys and sells commodities in the hope of making a profit. He is the one who, in the time-honored phrase, tries to "buy low and sell high."


But, what does buying low, selling high, and making large profits have to do with saving people from starvation? Adam Smith explained it best with the doctrine of "the invisible hand." According to this doctrine, "every individual endeavors to employ his capital so that its produce may be of the greatest value. He generally neither intends to promote the public interest, nor knows how much he is promoting it. And he intends only his own security, his own gain. He is led in this as if by an invisible hand to promote an end that was no part of his intention. By pursuing his own interest he frequently promotes that of society more effectually than when he really intends to promote it."[i]

The successful speculator, therefore, acting in his own selfish interest, neither knowing nor caring about the public good, promotes it.

First, the speculator lessens the effects of famine by storing food in times of plenty, through a motive of personal profit. He buys and stores food against the day when it might be scarce, enabling him to sell at a higher price. The consequences of his activity are far-reaching. They act as a signal to other people in the society, who are encouraged by the speculator's activity to do likewise. Consumers are encouraged to eat less and save more, importers to import more, farmers to improve their crop yields, builders to erect more storage facilities, and merchants to store more food. Thus, fulfilling the doctrine of the "invisible hand," the speculator, by his profit-seeking activity, causes more food to be stored during years of plenty than otherwise would have been the case, thereby lessening the effects of the lean years to come.

However, objections will be raised that these good consequences will follow only if the speculator is correct in his assessment of future conditions. What if he is wrong? What if he predicts years of plenty – and by selling, encourages others to do likewise – and lean years follow? In this case, wouldn't he be responsible for increasing the severity of the famine?


Yes. If the speculator is wrong, he would be responsible for a great deal of harm. But there are powerful forces at work that tend to eliminate incompetent speculators. Thus, the danger they represent and the harm they do are more theoretical than real. The speculator who guesses wrong will suffer severe financial losses. Buying high and selling low may misdirect the economy, but it surely creates havoc with the speculator's pocketbook.

A speculator cannot be expected to have a perfect record of prediction, but if the speculator guesses wrong more often than right, he will tend to lose his stock of capital. Thus he will not remain in a position where he can increase the severity of famines by his errors. The same activity that harms the public automatically harms the speculator, and so prevents him from continuing such activities. Thus at any given time, existing speculators are likely to be very efficient indeed, and therefore beneficial to the economy.


Contrast this with the activity of governmental agencies when they assume the speculator's task of stabilizing the food market. They too try to steer a fine line between storing up too little food and storing up too much. But if they are in error, there is no weeding-out process. The salary of a government employee does not rise and fall with the success of his speculative ventures. Since it is not his own money that will be gained or lost, the care with which bureaucrats can be expected to attend to their speculations leaves much to be desired. There is no automatic, ongoing daily improvement in the accuracy of bureaucrats, as there is for private speculators.

The oft-quoted objection remains that the speculator causes food prices to rise. If his activity is carefully studied, however, it will be seen that the total effect is rather the stabilization of prices.

In times of plenty, when food prices are unusually low, the speculator buys. He takes some of the food off the market, thus causing prices to rise. In the lean years that follow, this stored food goes on the market, thus causing prices to fall. Of course, food will be costly during a famine, and the speculator will sell it for more than his original purchase price. But food will not be as costly as it would have been without his activity. (It should be remembered that the speculator does not cause food shortages; they are usually the result of crop failures and other natural or man-made disasters.)

The effect of the speculator on food prices is to level them off. In times of plenty, when food prices are low, the speculator by buying up and storing food causes them to rise. In times of famine, when food prices are high, the speculator sells off and causes prices to fall. The effect on him is to earn profits. This is not villainous; on the contrary, the speculator performs a valuable service.

Yet instead of honoring the speculator, demagogues and their followers revile him. But prohibiting food speculation has the same effect on society as preventing squirrels from storing up nuts for winter – it leads to starvation.

Note
Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (New York: Random House, 1973), p. 243, paraphrased.

Reprinted from Mises.org.

June 10, 2010

Dr. Block is a professor of economics at Loyola University New Orleans, and a senior fellow of the Ludwig von Mises Institute. He is the author of Defending the Undefendable and Labor Economics From A Free Market Perspective. His latest book is The Privatization of Roads and Highways.




I applaud to the great Walter Block.

NO TAX ON SAVINGS

The savings of the citizens are already taxed heavily by the inflation.
A further taxation on the savings and/or on the revenues of savings is iniquitous and predatory.
Inflation is one of the more heavy taxes, hitting the savings and the purchasing power of the citizens.
Inflation is used for finance piloted public expences, printing new paper money that inflates present paper money, that is to say the liquidity owned by citizens.
The families of saving worker people come so impoverished, and their wealth, their purchasing power robbed by inflation goes to enrich the families of the beneficiaries of the public expence, beneficiaries arbitrarily designated.
Instead is good and right that the wealth that every family should have is determined by the merits, virtue, intelligence, cautiousness, probity of that family, and not by who controls the state, the tax authorities, the public expence and the coin of money.
Only a golden money or a gold-linked money would preserve the savings and the purchasing power of the citizens, of the productive classes.

For all this:

NO TAX ON SAVINGS AND ON THE REVENUES FROM SAVINGS

NO TAX ON PERSONAL FINANCE INVESTMENTS

NO TAX ON BONDS, STOCKS, YIELDS, DIVIDENDS AND CAPITAL GAINS.


Avv. Filippo Matteucci Di San Ginesio
Italian Privatist Economist for Global Free Trade

sabato 19 giugno 2010

Effetti di un aumento della tassazione sulle cosiddette rendite finanziarie delle persone fisiche.


Effetti di un aumento della tassazione sulle cosiddette rendite finanziarie delle persone fisiche.

I redditi da investimento finanziario, plusvalenze, dividendi e interessi, sono "redditi", e non "rendite". Il termine "rendita" nelle scienze economiche ha tutt'altro significato, definisce il guadagno che deriva dalla proprietà della terra. L'uso errato del termine sembra voler suggerire l'idea che i percettori di redditi finanziari, i risparmiatori, siano dei parassiti che vivono, appunto, "di rendita", senza produrre nulla (*). La realtà è ben diversa. Chi oggi non dedica tempo, lavoro, energie e soldi nella personale ricerca del miglior investimento finanziario, e investe a caso, sicuramente non sta guadagnando niente, anzi sta rimettendoci. Chi si affida alla gestione altrui non arricchisce, ma fa arricchire il gestore. Se oggi si vuole avere dei redditi reali dagli investimenti finanziari, occorre divenire dei trader a livello semiprofessionale, o almeno provarci; ed è questo che hanno fatto decine di migliaia di risparmiatori. Il lavoro di investimento finanziario è un lavoro durissimo, senza orari né ferie, ad altissimo rischio (soprattutto in Italia, dove sono carenti o inesistenti delle reali protezioni per i risparmiatori), lavoro che richiede una preparazione e un impegno enormi, continui, impensabili.

In materia di risparmio e tassazione del risparmio vi è una diffusa mancanza di conoscenza. In troppi esprimono pareri sulla base di irreali concezioni demagogiche ed ideologiche, senza il fondamento di una precisa conoscenza tecnica della questione. Gli errori più grossolani che solitamente si fanno sono sostanzialmente due. Il primo consiste nel considerare il reddito finanziario nominale, e non quello reale, cioè depurato dall'inflazione che colpisce il patrimonio investito. Il secondo errore viene commesso quando si vuol mettere sullo stesso piano le aliquote nominali di imposte profondamente diverse fra loro quali sono, dettagliatamente, l'imposta sul reddito delle persone fisiche, l'imposta sui redditi societari che colpisce le imprese, e l'imposta sostitutiva che viene invece applicata ai redditi finanziari: la diversa formazione della base imponibile di ciascuna di queste imposte fa sì che una ipotetica identica aliquota nominale, poniamo del 20%, pesi molto di più nel caso di imposta sostitutiva, nettamente di meno per l'imposta sul reddito delle persone fisiche, e ancor meno per l'imposta sulle imprese. Il mettere sullo stesso piano le aliquote nominali delle tre diversissime imposte, così come il non tenere conto dell'inflazione che colpisce i risparmi, possono anche essere fatti in buona fede, ma costituiscono tuttavia grossolane manifestazioni d'incompetenza.

Esaminiamo sinteticamente quali sono le tipologie più comuni di redditi da investimento finanziario:

dividendi: parte degli utili di una società distribuita agli azionisti. Il risparmiatore che investe acquistando azioni di una società diviene comproprietario pro quota di quella società;

plusvalenze o capital gains: differenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita di uno strumento finanziario, azione, obbligazione, future, ecc.. Il risparmiatore, con un difficile lavoro di trading, cerca di guadagnare sulla differenza di prezzo, rischiando però molto seriamente di perdere;

interessi: remunerazione del capitale prestato. Il risparmiatore, investendo in (cioè comprando) obbligazioni (bond) emesse o da stati (BTP, BOT, Bund.) o da società private (corporate), presta loro soldi, rischiando di non riaverli indietro (bond Cirio, bond argentini), e in cambio riceve un interesse. Non rendono più quasi nulla, invece, depositi e conti correnti, anzi questi ultimi spesso generano costi netti per il correntista.

In tutti e tre i tipi di redditi finanziari ora visti, vi è un reddito - guadagno reale solo se a fine anno l'accrescimento monetario del denaro del risparmiatore è superiore alla perdita di valore, di potere d'acquisto del denaro stesso, cioè se è superiore all'inflazione effettiva; altrimenti c'è una perdita reale (o rendimento reale negativo). In questi ultimi anni i guadagni monetari sono stati e sono tuttora mediamente inferiori all'inflazione effettiva, quindi i risparmiatori stanno perdendo ricchezza; questo ha generato la corsa all'acquisto degli immobili, con conseguente bolla speculativa immobiliare. In sintesi, il vero reddito, ipoteticamente da tassare, sarebbe quello che rimane dopo aver sottratto l'inflazione al rendimento nominale: invece oggi l'imposta colpisce tutto il reddito, anche quella parte annullata dalla perdita del potere d'acquisto dei risparmi investiti. Ciò nonostante, in occasione delle finanziarie degli ultimi anni, sono state da più parti avanzate pressanti proposte di un ulteriore aumento della tassazione del risparmio.


Vari economisti, come Luigi Einaudi, hanno storicamente espresso seri dubbi sulla opportunità e utilità della tassazione dei redditi da investimento finanziario, tassazione ritenuta controproducente per lo sviluppo del paese; ciò in quanto:

1. il risparmio è denaro, moneta, e come tale è soggetto ad inflazione, cioè a perdita di potere di acquisto, ovvero a perdita di valore. Questa perdita di valore va a favore dello stato, uno stato debitore in quanto è lui, direttamente o tramite enti da lui controllati, che emette tale moneta. Quindi l'inflazione è una tassa, anzi, è il più pesante e subdolo tributo di cui già si avvantaggia lo stato. Tutti sperimentiamo quotidianamente che in Italia c'è un'inflazione ben superiore a quella ufficialmente dichiarata dall'ISTAT: questa inflazione reale è il tributo che i risparmiatori già pagano al fisco, cui si aggiunge l'attuale imposta sostitutiva del 12,5% che ora si vorrebbe aumentare;

2. i possessori di grandi patrimoni mobiliari non verranno minimamente scalfiti da tale aumento della tassazione sui redditi finanziari, in quanto costoro o hanno già la residenza fiscale all'estero, o hanno messo in atto escamotage di fiscalità internazionale, quali i trust offshore, per cui già oggi non pagano all'Italia un centesimo di tasse su tali grandi capitali mobiliari, né l'Italia può e potrà fare nulla contro di loro; quindi l'aumento della tassazione sui redditi finanziari di fatto andrebbe a colpire solo i piccoli e medi risparmiatori;

3. i risparmiatori sono stati i soggetti più svantaggiati nella redistribuzione del reddito degli ultimi anni, tra rendimenti reali negativi, crollo della new economy, crack di società quotate (Parmalat, Cirio, Ferruzzi.); nel contempo i prezzi degli immobili, ritenuti l'unico vero bene rifugio tutelante dall'inflazione, sono saliti alle stelle gonfiati per di più dai tassi di interesse ai minimi del secolo;

4. decine di migliaia di risparmiatori nei decenni scorsi hanno ripopolato Svizzera, Montecarlo e Austria, fuggendo dall'Italia, portando via i loro soldi anche quando il farlo costituiva reato, pur di difenderli dallo stringersi della tenaglia fisco - inflazione; far fuggire anche gli ultimi rimasti sicuramente non aiuta l'Italia a risalire la china dello sviluppo economico. Se verrà elevata l'aliquota sui redditi finanziari l'Italia avrà perso per tali risparmiatori l'ultima debole attrattiva che le era rimasta. Di paradisi fiscali sparsi per il mondo (o neanche troppo lontani) che li aspettano a braccia aperte, e già pieni di Italiani, ne trovano quanti ne vogliono. E gli anni '60 e '70 hanno ampiamente dimostrato che i capitali in fuga non possono essere fermati;

5. la diminuzione dei redditi da risparmio, annientati dalla morsa bassi rendimenti - aumento della tassazione, ha devastanti effetti depressivi su economia e consumi, innestando una spirale di stagnazione che può durare decenni, come è successo in Giappone;

6. la fuga dagli investimenti finanziari spingerebbe la gente ad investire ancora di più in immobili, e quindi causerebbe un ingigantirsi della bolla speculativa immobiliare, con prezzi degli immobili già ora insostenibili;

7. a livello di Scienza delle finanze, il beneficio per l'erario derivante dall'aumento della tassazione sui redditi finanziari è irrisorio e quanto mai incerto, con più svantaggi che vantaggi, mentre ne è ben chiara la creduta valenza politico-demagogica, oltretutto nettamente obsoleta in relazione all'attuale composizione del patrimonio della maggioranza degli Italiani;

8. chi ha risparmi da investire in strumenti finanziari, ha tali risparmi perché ha messo da parte una quota dei suoi redditi: redditi già tassati dall'imposta sul reddito nei periodi fiscali in cui sono stati percepiti; i risparmi sono quindi reddito già tassato;

9. i dividendi, in quanto utili societari, sono già tassati in capo alla società, la quale li distribuisce al netto dell'imposta societaria ai risparmiatori-azionisti, i quali poi, nuovamente, pagano l'imposta sostitutiva su di essi; i dividendi sono quindi già doppiamente tassati;

10. le plusvalenze e gli interessi sono guadagni per chi li percepisce, ma perdite per chi li paga: il saldo finale per l'intera economia è zero, non vi è valore aggiunto assoggettabile equamente a tassazione, né motivi equi per cui il fisco si intrometta tra chi perde e chi guadagna;

11. certi industriali non possono scaricare la colpa del mediocre andamento delle loro imprese sul carico fiscale che subiscono, di fatto bassissimo: l'aliquota sul reddito d'impresa è fittizia, visto che si applica non su tutto il reddito, ma solo sul reddito imponibile, e qualsiasi commercialista è in grado di decimare l'imponibile del reddito d'impresa. Tutta una serie di fasce esenti, deduzioni e detrazioni sono previste per tutti gli altri tipi di reddito, a cominciare dal reddito da lavoro dipendente. Le aliquote sui redditi finanziari, invece, si applicano senza sconti su tutto il reddito, fino all'ultimo centesimo, non essendovi alcuna possibilità di dedurre costi e spese dall'imponibile. Si applicano anche sulle perdite da inflazione. Quindi il paragonare l'aliquota solo nominalmente più alta del reddito d'impresa o di lavoro a quella del 12,5% sui redditi finanziari non ha senso. Il vero problema, insormontabile, è che il costo del lavoro italiano è dieci volte quello cinese o indiano;

12. per i risparmiatori le perdite finanziarie (minusvalenze) sono deducibili dal reddito imponibile solo per quattro anni, quando i cicli economici e di borsa durano ben più di quattro anni. Esemplificando molto, se nell'arco di dieci anni il risparmiatore ha guadagnato 10 e perso 20, con un risultato finale netto negativo (perdita) di -10, ha comunque buone probabilità di pagare tasse come se avesse guadagnato +5: può sembrare assurdo, ma è così, questa è la legge in vigore;

13. gli stessi trader professionisti additati come "speculatori" sono decine di migliaia di onesti lavoratori che producono ricchezza, contribuiscono a far affluire denaro in borsa, non chiedono i sussidi o il pizzo a nessuno, pagano l'inflation tax e l'imposta sostitutiva fino all'ultima lira, e se operano anche sulle borse estere portano e spendono i loro profitti in Italia: non si capisce perché questo settore che produce ricchezza e occupazione debba essere penalizzato da misure fiscali punitive; l'aumento dell'aliquota dal 12,5% al 20% farebbe diminuire i redditi degli investitori del 7,5%: su di un reddito annuo, ad esempio di 20000 euro, al risparmiatore verrebbero estorti, oltre ai 2500 euro che già paga, altri 1500 euro (il tutto senza contare l'inflazione); e pensare che per la tassazione dei redditi dei dipendenti si litiga per 100 o 200 euro in più o in meno...;

14. è semplicemente priva di senso l'affermazione che l'aumento dal 12,5% al 20% dell'aliquota su BOT e guadagni di borsa verrebbe compensato dalla diminuzione dal 27 al 20% della tassazione sui conti correnti (in questo consisterebbe la cosiddetta "armonizzazione delle aliquote"): i conti correnti non rendono praticamente nulla, anzi, spesso danno rendimenti infinitesimali ben inferiori al loro costo, servono solo a parcheggiare moneta; su cosa verrebbe abbassata l'aliquota dal 27 al 20%, sul nulla? Il reddito per i risparmiatori viene dai BOT e dai guadagni di borsa: l'"armonizzazione" delle aliquote maschera, male, un aumento della tassazione del risparmio;

15. l'altro pretesto addotto a sostegno dell'aumento della tassazione del risparmio, la pretesa necessaria "armonizzazione" della nostra tassazione a quella degli altri paesi europei, è anch'esso infondato: la tassazione dei redditi finanziari (come dei profitti d'impresa) nei 25 paesi europei e' diversissima, e vi sono paesi in cui i redditi finanziari sono completamente esenti da tassazione; sulla tassazione dei redditi finanziari ogni paese va avanti per conto suo. Da sottolineare comunque che nei paesi dove esistono già misure fiscali vessatorie, le banche e le SIM non irrilevanti che si occupano esclusivamente di investimenti in borsa, per ciascuna nazione, non arrivano alle dita di una mano: in Italia, costituendo un patrimonio di professionalità e di lavoro tutto italiano, ne sono oltre 20, tra cui le migliori e le più grandi d'Europa, e tra le più efficienti e convenienti al mondo; in caso di aumento della tassazione sul risparmio almeno la metà saranno costrette prima ad appesantire le commissioni e poi a chiudere i battenti, licenziando i dipendenti. La vera tendenza internazionale, a partire dagli USA, è per una consistente diminuzione della tassazione sui redditi finanziari al fine di attrarre i capitali indispensabili per lo sviluppo. Purtroppo in Italia certi industriali non amano finanziarsi tramite i normali canali finanziari e le Borse, e dover così rispondere del loro operato di fronte ai risparmiatori e al mercato. Non ha quindi alcun senso parlare di armonizzazione. E poi si pagano tasse per avere dei servizi: ordine pubblico, giustizia, sanità: i servizi offerti dallo stato agli Italiani non sono neanche paragonabili a quelli dei migliori paesi europei.


L'Italia non subisce alcun declino se gli Italiani preferiscono essere risparmiatori, azionisti o creditori di imprese dislocate all'estero, invece che operai della Fiat. Agli Italiani vanno gli utili, la ricchezza, e all'estero va il lavoro più usurante.

La realtà, la verità, è che all'Italia non servono industrie inquinanti, manodopera importata e inutili burocrati, ma l'Italia ha, quasi unica al mondo, i requisiti di storia, arte, clima, gastronomia, ambiente per divenire la residenza stabile e/o la meta turistica dei ricchi del mondo, e che ciò può portarci ben più ricchezza di qualsiasi altra tipologia di sviluppo economico. Potremmo divenire la Florida dell'Unione Europea, potremmo vivere in un paradiso per benestanti, invece che, tartassati, in un inferno di extracomunitari, di criminalità, spaccio, prostituzione, di inquinamento e di rumori.

Sarebbe molto più intelligente difendere il patrimonio ambientale e culturale, la qualità della vita, e attirare i ricchi, detassando tutti i redditi tipici dei ricchi, tra i quali anche quelli finanziari. L'eliminazione dell'attuale imposta sostitutiva su plusvalenze, dividendi e interessi, stimolerebbe l'investimento in borsa e restituirebbe vitalità a quel meccanismo economico di circolarita' della ricchezza che dovrebbe essere ben conosciuto da Quesnau in poi. Tale meccanismo circolare della ricchezza, generato dall'investimento del risparmio, e al quale la speculazione finanziaria dà stimolo ed energia, dovrebbe costituire il riferimento obbligato per chiunque voglia sensatamente pronunciare la parola "sviluppo".

Ricordo infine che la nostra Costituzione agli articoli 42 e 47 tutela, unitamente alla proprietà privata degli immobili, il risparmio in tutte le sue forme.

Per la crescita della ricchezza di ciascun Italiano e dell'Italia tutta non è necessario che "qualcun altro" paghi più tasse. La via maestra è ridurre sprechi e spese, meno stato e più mercato, e non più tasse a questo o a quello.



(*) Nota: invito il lettore a digitare su Google o su un qualsiasi altro motore di ricerca l'argomento tassazione rendite finanziarie per verificare di persona con quanta malafede, slealtà e scorrettezza la questione venga da taluni trattata; eppure una volta vigeva un Buon Comandamento, quello di non desiderare la roba (e i risparmi) d'altri.


Avv. Filippo Matteucci Di San Ginesio
Privatist Economist for Global Free Trade


"Lo stato non risolve i problemi. Lo stato è il problema."
Ronald Reagan

venerdì 30 aprile 2010

NOBILITAS NOVA

LA FUNZIONE STORICA IDEALE DELLA NOBILTA'

- Visione aristocratica dell'esistenza umana
- Governo del Bene
- Difesa dei deboli e degli oppressi, secondo i dettami della migliore Cavalleria
- Virtù Cristiane


TRADIMENTO DEI PRINCIPI ARISTOCRATICO - NOBILIARI

Una parte consistente della nobiltà storica ha tradito se stessa.
La nobiltà è stata per secoli annacquata e inquinata dall'accettazione nei suoi ranghi della nobiltà di toga , spesso comprata dai Re. La vendita di titoli nobiliari ha rappresentato e rappresenta per sovrani poco lungimiranti o indegni uno degli stratagemmi per rimpinguare la regia cassa.
Troppi appartenenti alla più alta nobiltà di spada si sono lor stessi macchiati indelebilmente dei più squallidi comportamenti volgar - borghesi: divorzi, sordide avventure sessuali, ruberie alle casse pubbliche, illeciti finanziari, immoralità di costumi, affiliazione a società occulte anticristiane finalizzate all'acquisizione immeritata di potere sugli stati e sulla finanza e alla depredazione dei ceti produttivi.


NUOVO SANGUE NOBILE

La soluzione al degrado or descritto di parte della nobiltà consiste in un'epurazione del marcio unita a un rinnovo selettivo.
La nobiltà nasce unicamente dal sangue versato.
Un ampliamento assiologicamente ineccepibile della base nobiliare può essere immediatamente concretizzato riconoscendo lo status nobiliare ereditario alle famiglie che hanno versato il loro sangue per la difesa della comunità, e tale status desiderino ottenere.

Sono quindi NOBILTA' NUOVA:

- le famiglie che hanno avuto uno o più caduti nelle guerre sostenute dalla nazione italiana contro nazioni straniere; e per "straniera" intendiamo qualsiasi nazione non italiana, vincitrice o sconfitta che sia stata; non rientrano in questa ammissione i caduti per mano fratricida nelle guerre civili o di conquista di territori italiani da parte di altri italiani; vi rientrano invece gli italiani caduti per mano di altri italiani nella difesa del loro stato e del loro Re, ad esempio i Borbonici caduti per mano garibaldina o savoiarda, o i Veneti caduti militando nelle armate asburgiche;

- le famiglie che hanno avuto uno o più caduti nella lotta alla criminalità, compresa la criminalità di stato, appartenenti alle Forze dell'Ordine o alla Magistratura, o civili coraggiosi che hanno pagato con la vita il loro opporsi al male.


EPURAZIONE DEGLI INDEGNI

Questa Nobilitas Nova costituirà, con suoi appartenenti, una nuova Consulata Nobiliare, la quale epurerà dalla nobiltà tutti gli appartenenti alla vecchia aristocrazia che si sono macchiati dei sopra esemplificati comportamenti ignobili, dichiarando le loro famiglie DECADUTE.


Filippo Matteucci Di San Ginesio

Tratto da:
http://nobilitasnova.over-blog.com/

martedì 26 gennaio 2010

In the Italy dominated by thievish servants' ignoble sons, heroes are forgotten, but not by us.

A Hero: Comandante B.ne Amedeo Guillet



http://it.wikipedia.org/wiki/Amedeo_Guillet


Le immagini sono state tratte da:
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/c/ca/Guillet_-_Squadroni_Amhara_1940.jpg
e
http://www.clydeandforthmedia.co.uk/crop/280/210/images/75/1234355927.jpg

Filippo Matteucci Di San Ginesio

venerdì 15 gennaio 2010

Proprietà privata e proprietà pubblica dello stato in Hans-Hermann Hoppe

Proprietà privata e proprietà pubblica dello stato in Hans-Hermann Hoppe
Saggio di Filippo Matteucci



“Uno stato è un monopolio territoriale della coercizione, un’agenzia che può dedicarsi a continue violazioni istituzionalizzate dei diritti di proprietà e allo sfruttamento dei proprietari privati tramite esproprio, tassazione e regolamentazione.” Con queste stesse parole Hans-Hermann Hoppe apre i suoi due saggi “Élites naturali, intellettuali e Stato” e “L’economia politica della monarchia e della democrazia, e l’idea di un ordine naturale”. Nella definizione proposta da Hoppe lo stato viene visto come soggetto, come una entità autonoma rispetto agli individui e alle famiglie che agiscono in esso e tramite esso. Nel prosieguo dei due scritti lo stato verrà poi considerato come oggetto di un diritto - potere, quello di proprietà. Tuttavia già nel concetto anglosassone di “agency” viene adombrata quella strumentalità dello stato, caratteristica essenziale della concezione e identificazione dello stato come apparato o insieme di apparati.
In “Élites naturali, intellettuali e Stato”, l’apertura incentrata sulla definizione di stato porta l’Autore a ripercorrere le teorie sull’origine degli stati. Hoppe sembra voler aderire alla teoria della genesi endogena dello stato di Bertrand De Jouvenel, secondo la quale le relazioni socioeconomiche naturalmente creano una élite di individui e famiglie. La genesi di tale gerarchia è meritocratica, riconducibile a una spontanea conquista di autorità e diffuso rispetto, mediata dal riconoscimento sociale di virtù quali talento, saggezza, coraggio, risultati superiori in termini di ricchezza, lungimiranza ed esemplare condotta personale. La transizione verso lo stato viene imperniata sulla monopolizzazione della funzione giudiziaria da parte dei membri più influenti di tale élite, funzione precedentemente ad essi spontaneamente attribuita dalla comunità. Sono ovviamente assenti in De Jouvenel considerazioni sui rapporti etologici tra soggetto dominante e soggetto dominato. L’etologia prescinde da valutazioni etiche o di merito, e focalizza unicamente la finalità della migliore sopravvivenza e conservazione della specie, finalità per lo più raggiunta finché si rimane nell’ambito delle motivazioni istintuali, spesso fallita quando intervengono l’autocoscienza umana e i prodotti dell’autocoscienza medesima. Pur tuttavia gli elementi essenziali del rapporto etologico dominante - dominato sono visibilissimi nelle relazioni umane, e chiarissimi ed immediatamente evidenti nelle interazioni primitive o infantili. Di fatto, il rapporto dominante - dominato è un rapporto di potere.
Nella definizione che Hoppe fa dello stato sono presenti concetti elementari del potere: coercizione, sfruttamento, tassazione, ma lo stato stesso viene visto come soggetto agente: è lo stato che attua coercizioni, sfrutta, tassa, espropria mediante inflazione. Eppure nella definizione del potere lo stato è irrilevante, non necessario. Il potere viene esercitato dal dominante sul dominato e consiste nella possibilità per il dominante di imporre al dominato prestazioni fisiche e/o prestazioni patrimoniali. Le prestazioni fisiche possono andare dalla mera schiavizzazione alle antiche corvé medioevali, dal servizio militare al lavoro dipendente sottopagato di oggi. Le prestazioni patrimoniali tipiche sono la tassazione, il pizzo, l'inflazione. Entrambe le tipologie di imposizione costringono il dominato a destinare parte delle risorse della sua vita, soprattutto tempo ed energie, a vantaggio di un estraneo. Per detenere il potere il dominante deve ideare e porre in essere forme di controllo sul dominato, e queste forme di controllo possono concretizzarsi ed essere organizzate in apparati, anche, ma non solo, statuali. In questa accezione il concetto di controllo vale come possibilità di indirizzamento delle risposte dei dominati a pulsioni rilevanti, per giungere alla pianificazione delle esistenze dei dominati stessi. E' lo stato come apparato, e quindi come strumento di controllo sui dominati, che può essere a sua volta oggetto di controllo, identificando in quest'ultima diversa accezione il concetto di controllo con quello di proprietà usato dall'Autore. Lo stato rende comodo l'esercizio del potere.
Alla teoria sulla genesi dello stato di De Jouvenel, ripresa da Hoppe, manca una esplicita considerazione dell'instaurazione di un potere basato sulla maggiore forza fisica di un individuo su altri, e/o sulla forza intimidatoria e predatoria del gruppo, foss'anche esso un branco non organizzato di uguali unificato solo dalla finalità di razzia. Mi sembra invece di estrema rilevanza l'accentuazione sulle virtù concausanti la diversa genesi spontanea, non imposta, dell'élite, della nobiltà, evidenziazione penalizzata però dall'omessa riconduzione dei meriti anche alle virtù guerriere, difensive, essenziali nelle comunità, non solo antiche. Il nobile guerriero che combatte in difesa o comunque a favore della comunità è colui che permette alla comunità stessa un’esistenza sicura e prospera, e quindi il suo rango e i conseguenti privilegi gli vengono ben volentieri riconosciuti dalla sua gente. E' qui d'obbligo il ricordo delle radici della morale aristocratica europea, radici che possiamo rinvenire già nell'Iliade di Omero: "E volto a Glauco d'Ippoloco figliuol, Glauco, gli disse, perché siam noi di seggio, e di vivande e di ricolme tazze innanzi a tutti nella Licia onorati ed ammirati pur come numi? Ond'è che lungo il Xanto una gran terra possediam d'ameno sito, e di biade fertili e di viti? Certo acciocché primieri andiam tra' Licii nelle calde battaglie, onde alcun d'essi gridar s'intenda: Glorïosi e degni son del comando i nostri re: squisita è lor vivanda, e dolce ambrosia il vino, ma grande il core, e nella pugna i primi. Se il fuggir dal conflitto, o caro amico, ne partorisse eterna giovinezza, non io certo vorrei primo di Marte i perigli affrontar, ned invitarti a cercar gloria ne' guerrieri affanni. Ma mille essendo del morir le vie, né scansar nullo le potendo, andiamo: noi darem gloria ad altri, od altri a noi" recita l'insuperato incitamento di Sarpedonte a Glauco nel Canto XII. Nell'ambito di una morale aristocratica così delineata l'autocoscienza umana, invece di ostacolare la migliore sopravvivenza della specie, è presa d'atto e indifferente accettazione della morte, inevitabile, e consapevolezza della quasi onnipotenza del nobile guerriero prima di essa. Il non aver paura della morte, propria e dei propri cari, e la conseguente disponibilità al rischio estremo a difesa della comunità, fanno sì che la comunità così tutelata spontaneamente offra e riconosca ai guerrieri le migliori terre, i migliori cibi, le migliori donne, e obbedisca ai loro comandi. La differenza fra spontaneità e imposizione nel riconoscimento del potere, fra il nobile guerriero omerico riverito dalla sua gente e il razziatore del branco indisciplinato è una differenza essenziale e, soprattutto, è una differenza qualitativa. Stiamo quindi parlando di qualità del dominante.
Abbiamo perciò una diversificazione dell'uso della forza e delle armi incentrata su distinte e opposte finalità; da una parte i nobili guerrieri che combattono a tutela, o comunque a vantaggio di una comunità riconoscente, dall'altra un branco dedito alla razzia, della propria comunità come di comunità estranee. L'omessa chiarificazione di tale distinzione porta Hoppe a focalizzare solo aspetti parziali del potere, quali le funzioni di pacificatore, legislatore, giudice che nei saggi in oggetto egli vede progressivamente monopolizzate dai monarchi. Un'ulteriore contraddizione che si riscontra nei saggi in oggetto, in parte collegata alla ora detta focalizzazione parziale, è quella tra la spontaneità del conferimento del potere al dominante, basata sul riconoscimento delle sue qualità, e l'asserita opposizione di altri membri dell'élite che l'Autore fa assurgere a causa dell'imposizione del potere. Una qualità riconosciuta non dovrebbe incontrare opposizione, non dovrebbe richiedere imposizione. Si rende quindi necessaria una definizione ed una misurabilità del concetto stesso di qualità del dominante, ma anche una individuazione della qualità e delle finalità degli oppositori. Hoppe, dopo aver individuato nella monopolizzazione delle funzioni giudiziarie da parte del monarca la causa del passaggio dalla gratuità alla onerosità fiscale della legge e della sua applicazione, sembra voler ascrivere l'opposizione al re al deterioramento della qualità della legge: "Invece di sostenere gli antichi diritti di proprietà ed applicare universali e immutabili principi di giustizia, un giudice monopolista, che ora non temeva più di perdere clienti con un comportamento meno imparziale, cominciò a tradire le leggi esistenti a suo vantaggio [...] altri membri dell’élite naturale opponevano resistenza a tentativi del genere, ma ciò avvenne perché il re solitamente si schierava assieme al “popolo” o all’“uomo comune”. Appellandosi al sempre diffuso sentimento di invidia, i re promettevano al popolo una giustizia migliore e più a buon mercato facendo pagare il conto, attraverso la tassazione, alle aristocrazie (i competitori del re). In secondo luogo, le monarchie si procurarono l’aiuto della classe intellettuale.". Questo passo mi sembra centrale e necessita di un commento approfondito. Preliminarmente vi è da notare che l'assoggettamento al tributo, quale elemento essenziale del rapporto di potere tra dominante e dominato, non può trovare la sua genesi nell'onerosità della legge e della sua applicazione, poiché pre-esiste ad essa. L'opposizione frondista al re potrebbe originare anche da quella parte di potenti non spontaneamente riconosciuti dalla comunità, i discendenti dei razziatori del branco, privi del senso della comunità estesa. Proprio il re e la comunità potrebbero aver in precedenza ridimensionato la dominanza imposta con la forza bruta di tali potenti di infima qualità. E costoro, i razziatori, vanno tenuti ben distinti dai vari Glauco della storia, i guerrieri fedeli al re, poi ricompensati per il loro valore e il loro coraggio sia dal re che dal popolo con beni e onori. Che il conto lo abbiano pagato solo le aristocrazie è discutibile; tuttavia una cosa è certa: ogni qual volta un monarca di qualità non eccelsa, affetto da paure frondiste, ha colpito il potere e il ruolo di una aristocrazia a lui sufficientemente fedele ha firmato la condanna per se stesso.
Ogni rivoluzione moderna ha visto furbi e spregiudicati razziatori tirare le fila nell'ombra, spingendo avanti una rozza e ottusa plebaglia sanculotta a versare il sangue per eliminare fisicamente i re e la nobiltà ai re fedele. Sono questi razziatori di un nuovo tipo, banchieri e appartenenti all'alta borghesia, che intendono impadronirsi dello stato-apparato e in particolare del fisco per aumentare enormemente le proprie ricchezze a spese di tutti gli altri membri della comunità. Razziatori che sanno avvalersi di una sleale mistificazione della realtà utilizzando a tale scopo intellettuali prezzolati per far apparire al popolo la menzogna come verità. Acutamente Hoppe afferma: "C’erano coloro che giustamente riconoscevano che il problema stava nel monopolio e non nell’esistenza di élites o di nobiltà. Ma questi si trovavano di gran lunga in inferiorità rispetto a quanti, erroneamente, davano la colpa al carattere elitario del governo e, volendo mantenere il monopolio della legge e della sua applicazione, proponevano la semplice sostituzione del re e della vistosa pompa reale con il “popolo” e la presunta morigeratezza dell’“uomo comune”. Da qui il successo storico della democrazia.". Vorrei sintetizzare che il problema stava nello scadimento qualitativo sia del re monopolista, sia dell'aristocrazia. L'esempio classico di ciò è il Re Sole, Luigi XIV di Francia. Un re la cui opera per l'accrescimento del potere e della ricchezza del regno non ha dato risultati. Un re timoroso della fronda nobiliare, che per abbattere un'aristocrazia potenzialmente competitiva nei suoi confronti, la obbliga a corte, la trasforma in uno stuolo di lacchè, le affida i servaggi più intimi a favore della sua persona: guerrieri trasformati in maschere, dissoluti, arroganti e inutili. Le provincie e i feudi, privati così dei governatori naturali, cadono in mano ad amministratori e fattori, per loro intrinseca natura disonesti e, per dirla con l'Autore, rivolti al presente, alla possibilità presente di razzia. Costoro arricchiscono rubando sia all'aristocratico assente sia al popolo, e la ricchezza dà potere.
Una delle più notevoli e apprezzabili affermazioni di Hoppe è quella del peggioramento delle condizioni del popolo a seguito della transizione dal potere monarchico a quello democratico e della sostituzione della sovranità del re con quella, formalmente, del popolo stesso. E' forse questo tema il nodo cruciale di “Élites naturali, intellettuali e Stato”, tema ripreso e ampliato in “L’economia politica della monarchia e della democrazia, e l’idea di un ordine naturale”. Hoppe rovescia la generalizzata credenza migliorista secondo cui l'umanità marcia progressivamente verso stadi di sviluppo sempre più elevati. Il passaggio dalla monarchia alla democrazia formale rappresenta in realtà un passo indietro nella civilizzazione, gravido di conseguenze nefaste per la qualità della vita dei governati. Viene da chiedersi a cosa è dovuta quella diffusa credenza migliorista. In primis al progresso tecnico; progresso che sarebbe però avvenuto anche sotto governi monarchici, forse in forme più rispettose della centralità dell'uomo e dell'ambiente in cui l'umanità vive. In secondo luogo, alla rarefazione delle guerre nei (soli) paesi avanzati, rarefazione dovuta però non alla democrazia formale, ma all'inutilizzabilità delle armi atomiche e alla presenza in quei paesi di impianti produttivi troppo costosi per poter essere distrutti. Le condizioni di pace e di progresso tecnico dell'Occidente non sono quindi meriti della democrazia formale, ma conseguenze inevitabili di assetti di diversa natura venutisi a creare, e da soli insufficienti a garantire qualità di vita. L'Autore ben individua alcuni aspetti del reale regresso di civilizzazione avveratosi col passaggio alla democrazia: "Si creò così una “tragedia dei beni collettivi”. Ognuno ora, non solo il re, divenne autorizzato ad impossessarsi della proprietà privata altrui. Le conseguenze furono un maggior sfruttamento da parte del governo (più tassazione); lo scadimento del diritto fino al punto da far scomparire l’idea di un corpo di principi di giustizia universali ed immutabili, rimpiazzati con l’idea che il diritto consistesse nella legislazione (legge creata, invece che scoperta ed eternamente “data”); ed un aumento nel tasso di preferenza temporale sociale (più orientato al presente)."
In realtà, in cosa consiste la differenza tra proprietà privata e proprietà pubblica dello stato? Hoppe nota che "Un re possedeva il territorio e poteva passarlo a suo figlio, per cui almeno cercava di preservarne il valore. Un governante democratico, invece, era, ed è, solo un temporaneo gestore che cerca di massimizzare qualsiasi tipo di entrata corrente del governo a spese del valore capitale che viene così sprecato." La proprietà privata del monarca sullo stato è ereditaria, quindi familiare. Parliamo perciò di una famiglia di proprietari - dominanti regi. Questa famiglia regia sa che è, e molto probabilmente sarà, proprietaria dello stato territorio e dello stato comunità. Territorio e comunità sono sue proprietà, quindi vanno curate, ben amministrate, rese più prospere e più potenti. E' naturale che ogni essere umano, ogni famiglia abbia a cuore e curi le sue proprietà, soprattutto quando è quasi certa di potersele tramandare di generazione in generazione. Chiunque collabori in questa opera di cura con la famiglia regia può essere premiato con un avanzamento sociale, garantendo quella mobilità verticale tra le classi misconosciuta dall'Autore. Con ciò non voglio certo negare l'esistenza storica di re e principi che sembrano discendere, piuttosto che dai nobili guerrieri, dai razziatori di cui parlavo sopra: è quest'ultima specie di monarchi che depreda e impoverisce i sudditi per finanziare inutili guerre di confine; storicamente ne sono un esempio i signori italiani, dal Rinascimento in poi. Hoppe focalizza efficacemente la temporaneità della gestione del governante democratico, e quindi il suo interesse alla razzia immediata. Tuttavia vi è da chiedersi: chi è il governante democratico? Esiste, può esistere una proprietà dello stato veramente pubblica?
Nella tradizione giuspubblicistica europea la forma monarchica viene contrapposta solitamente alla res publica, che letterelmente vuol dire "cosa di tutti". Hoppe sottolinea giustamente l'essenza altamente elitaria delle poche democrazie comparse nella storia antecedentemente alla prima guerra mondiale. Ma proprietà elitaria è concetto opposto a res publica, proprietà pubblica, di tutti. L'intuizione marcusiana della funzione di controllo sui dominati attribuibile alla distorsione del significato delle parole richiede un approfondimento su tale contraddizione. Democrazia letteralmente vuol dire comando del popolo, potere al popolo. Ma se eccettuiamo i rarissimi casi storici di democrazia diretta, rinvenibili ad esempio nella ecclesia ateniese, è proprio vero che la democrazia delegata, elettiva, rappresentativa, concreta un effettivo potere del popolo votante, quindi delegante? Chi delega potere perde potere a favore del delegato, così come, nell'amministrazione di affari e patrimoni privati, chi delega la gestione degli stessi impoverisce facendo arricchire l'amministratore, il delegato. In fondo, è questa la sorte subita da buona parte della nobiltà, attratta nella capitale, a corte, in una vita dannunziana, mentre il furbo e avido fattore lasciato ad amministrare le grandi proprietà terriere piano piano se ne appropria. Come il fattore tratterà i contadini? Viene da interrogarsi sulle qualità di governante di tale soggetto, perché sarà poi proprio lui, il fattore arricchito, a comprarsi i voti per farsi eleggere in democratici parlamenti. La democrazia elettiva postula l'incertezza, la precarietà e quindi la temporaneità del potere, e la necessità di comprarsi il consenso, l'acquiescenza. Per le famiglie discendenti dal banchiere che manda avanti i sanculotti o dal fattore profittatore il potere sullo stato dipende dalla ricchezza, dalla possibilità economica di comprare consenso. Tali nuove famiglie dominanti non possono contare sul riconoscimento spontaneo di autorità da parte del popolo. Le masse urbanizzate, operaizzate, costrette a sopravvivere in condizioni abitative e lavorative spaventose, o i braccianti agricoli sfruttati, odiano tali famiglie dominanti. Queste famiglie devono quindi risolvere il problema della continuità del potere, e l'unica garanzia di sopravvivenza quali famiglie dominanti diviene il poter mettere le mani sugli apparati dello stato, in particolare sul fisco. Questo permette di socializzare i costi del consenso, cioè di far pagare alla maggioranza di oppositori o di disinteressati il costo sia delle rendite distribuite ai clientes sia dei copiosi sussidi che le famiglie al potere ritagliano per se stesse, camuffandoli sotto le più varie forme e con le più varie modalità. Ovviamente, a tal fine, più disinteressati e distratti ci sono fra il popolo, meglio è. Nel passato le forme di controllo erano prevalentemente fisiche, coercitive e punitive, dalla frusta alla forca. Oggi le forme di controllo sono essenzialmente mentali, si avvalgono dei mass media, e mirano alla pianificazione delle esistenze dei dominati e alla canalizzazione e deviazione del loro pensiero: il dominante dice al dominato cosa deve volere nella vita. Le odierne forme di controllo mentale sono complementari al ricatto lavorativo - reddituale tipico del clientelismo, consistente ad esempio nella concessione del posto di lavoro solo alle famiglie di servi di provata fedeltà e obbedienza. Ciò nonostante rimane l'altro problema, quello del non riconoscimento spontaneo di autorità, generalmente espresso come odio. La soluzione a tale secondo problema viene trovata nella non visibilità del potere effettivo.
Il potere viene esercitato su di un territorio, un comune, una provincia, una regione, uno stato, più stati, da una famiglia o da gruppi di famiglie in vario modo alleate tra loro. Nel passato caratteristica del potere era la visibilità: tutti dovevano sapere quale famiglia o gruppo di famiglie comandava sul territorio: funzionali alla visibilità erano i simboli del potere, scettri, corone, emblemi, sigilli, stemmi sui palazzi, effigi sulle monete e quant'altro. Il potere era quindi manifesto, dichiarato; oggi invece si nasconde dietro la formale e ovviamente fittizia dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo. Oggi il potere vuole (o deve) essere invisibile: pochissimi sanno quali famiglie controllano anche solo il comune in cui vivono; eppure quelle famiglie di dominanti determinano qualitativamente le esistenze dei residenti. Strumentale alla non visibilità è l'esercizio del potere attraverso prestanomi, politici e amministratori pubblici, schermi tra le famiglie al potere e le famiglie dei dominati: questi prestanomi non hanno alcun potere proprio, eseguono gli ordini delle famiglie dominanti e gestiscono le briciole e le elemosine del clientelismo. Possono essere facilmente preposti a quelle cariche dalle famiglie dominanti: esse finanziano questi politici di professione come propri dipendenti, gli unici destinati a entrare nelle liste di candidati, o comunque gli unici ad avere possibilità di essere eletti.
Tuttavia le soluzioni suddette escogitate dalle famiglie di dominanti per mantenersi al potere in un regime formalmente democratico, come facilmente si intuisce dalla loro stessa natura e dalla macchinosità dei meccanismi loro strumentali, non hanno certo quella longevità garantita da un consenso ottenuto, gratuitamente, in base ai meriti. Quindi rimane validissima la descrizione di Hoppe del comportamento del governante democratico, orientato al presente, e dei suoi effetti principali: aumento della spesa pubblica, del disavanzo pubblico, della tassazione e dell'inflazione, e forzata rimozione mentale dei più elementari diritti naturali. Tali effetti sono con maggior dettaglio descritti nel saggio “L’economia politica della monarchia e della democrazia, e l’idea di un ordine naturale”, leggendo il quale non si può non ammirare, oltre alla chiarezza, una libertà di giudizio, opinione ed espressione generalmente impensabile in un docente universitario europeo. L'Autore comprova la sua tesi di scadimento della qualità dei dominanti a seguito del passaggio dalla proprietà privata monarchica dello stato alla res publica democratica, a partire dalla fine del primo conflitto mondiale, con i dati sull'innalzamento degli indici di sfruttamento e di orientamento al presente.
In primis la tassazione: fino alla seconda metà del XIX secolo il potere pubblico non gestisce più dell'8% del reddito nazionale; la prima tassazione del reddito viene instaurata nel Regno Unito solo nel 1843; perfino all'inizio della prima guerra mondiale le spese totali del governo non salgono sopra il 10% del PIL. Oggi lo stato toglie ai cittadini, solo con la tassazione, e senza considerare l'inflazione, ben oltre il 50% della nuova ricchezza da loro prodotta e quote consistenti dello stock di ricchezza privata esistente. L'impiego pubblico, strumento di punta del clientelismo e della socializzazione dei costi del consenso, aumenta a dismisura: fino alla fine del XIX secolo l'occupazione nel settore statale raramente eccede il 3% del totale della forza lavoro; oggi siamo sopra al 15%. L'inflazione è il più pesante e il più subdolo tributo che le famiglie dominanti possono imporre ai cittadini. Durante l'era monarchica vi è una moneta - merce, con un valore intrinseco dato dalla preziosità del metallo di cui è composta, per lo più oro e argento, e quindi largamente sottratta al controllo governativo: in tale condizione, il livello dei prezzi viene generalmente calando e il potere d'acquisto aumentando, salvo che nei periodi di guerra o di scoperta di nuovi giacimenti dei detti metalli. La ricchezza mobiliare dei cittadini, il valore dei loro risparmi, vengono quindi tutelati e preservati. Dopo la prima guerra mondiale e fino ai giorni nostri, in era di repubbliche democratiche, con l'imposizione del corso forzoso della moneta cartacea, stampabile praticamente a costo zero e priva di valore intrinseco, e col concomitante progressivo abbandono del gold standard, cioè della convertibilità in oro della cartamoneta, gli indici dei prezzi moltiplicano paurosamente i loro valori, bruciando i risparmi della gente a tutto vantaggio degli stati e delle famiglie di dominanti che traggono la loro ricchezza dall’uso strumentale, a loro favore, dello stato e della spesa pubblica. Di fatto, l’inflazione è stata negli scorsi decenni e continua ad essere ancor più oggi lo strumento di una gigantesca depredazione dei patrimoni di chi non è al potere. Durante l'era monarchica il debito pubblico era essenzialmente debito di guerra, e nei periodi di pace i monarchi tendevano a diminuire i propri debiti. Dall'inizio dell'era democratica il debito pubblico non fa che aumentare, e letteralmente esplode con l'avvento del regime di pura carta moneta non convertibile. Per il cittadino è come se un estraneo si fosse arrogato il diritto di prestarsi somme da una banca in nome e per conto del cittadino medesimo: i soldi li prende e li usa l'estraneo, il debito dovrà pagarlo il cittadino con gli interessi. Il passaggio dallo ius naturalis, un insieme di principi e di regole naturali, intrinseche a ogni essere umano e quindi universalmente riconosciute, rispettate anche dai sovrani in quanto a loro preesistenti, al diritto positivo, unilateralmente e arbitrariamente posto, o meglio imposto da un legislatore privato appropriatosi dello stato, passaggio già di per sé distruttivo di possibilità ed aspettative di convivenza, vede in era democratica un aggravamento nell' inflazione legislativa, nella produzione alluvionale di decine di migliaia di leggi e regolamenti. Con uno sviluppo del tutto simile a quello della democratizzazione della moneta, cioè della sostituzione di carta moneta governativa alla moneta merce privata dotata di valore intrinseco con conseguente inflazione e incertezza finanziaria, l'alluvione legislativa porta al progressivo deprezzamento di tutte le leggi e all' incertezza giuridica. Le più insignificanti minime attività umane vengono minuziosamente e inutilmente regolamentate, a dimostrazione del potere totalitario di un governo formalmente democratico. Invece, complici una magistratura statalista di bassa qualità, selezionata clientelarmente, e un allungamento temporale dei processi, vengono di fatto scarsamente o per nulla tutelati proprio i diritti naturali fondamentali, quelli all'incolumità della propria persona, al rispetto della proprietà privata individuale e familiare, alla libertà di opinione, alla libera iniziativa economica, alla salute, alla vivibilità dell'ambiente e delle città.
Hoppe vede ulteriori indici di orientamento al presente e di deterioramento qualitativo. Nota il sistematico incremento degli indicatori di disintegrazione familiare, del numero di famiglie disfunzionali e ritiene in buona parte responsabile di ciò la spesa sociale e il progressivo sollevamento dei dominati dalla responsabilità di provvedere alla propria salute, alla propria vecchiaia. La sistematica riduzione della sfera e dell'orizzonte temporale dell'azione previdente privata porta alla perdita di valore del matrimonio, della famiglia, dei figli, del risparmio privato, e al calo del tasso di natalità. Crescono rapidamente invece i divorzi, i figli illegittimi, i genitori non sposati, i single, gli aborti. Come effetto del discredito della legge causato dall'inflazione legislativa, e della collettivizzazione delle responsabilità creata dalle politiche di formale welfare, aumenta sistematicamente la criminalità: "...una sistematica relazione tra alta preferenza temporale e crimine esiste, perché per guadagnarsi un reddito sul mercato è necessario un minimo di pianificazione, pazienza e sacrificio. […] Di contro, la maggior parte delle attività criminali […] non richiedono una tale disciplina. Il compenso per l’aggressore è immediato e tangibile, mentre il sacrificio – la possibile punizione – è futuro e incerto.”
La proprietà degli stati storicamente esistiti è stata sostanzialmente privata. Stati di formale proprietà pubblica, di democrazia formale delegata, hanno camuffato sostanziali tirannie oligarchiche di famiglie di potentati di qualità discutibile, caratterizzati e differenziati dall’orientamento al presente.
Come già notato, Hoppe lascia irrisolte alcune altre contraddizioni; vediamo se una loro visione da un diverso profilo ci permette di dar loro una maggiore chiarezza. Hoppe annovera l'inflazione tra gli indici e strumenti di sfruttamento; tuttavia l'inflazione non è solo questo. Essa è anche strumento di blocco della mobilità verticale tra le classi e di eliminazione di potenziali e competitivi concorrenti. Pratichiamo per un attimo una assunzione di ruolo e immedesimiamoci nelle ansie delle famiglie dominanti il regime di democrazia delegata, invisibili e temporanei proprietari molto privati di uno stato formalmente di pubblica proprietà. Chiediamoci chi realmente costoro temano, in ciò non differenti da qualsiasi dominante (monarchi compresi) di bassa qualità. La risposta ce la dà lo stesso Autore, nel momento in cui descrive la necessità per il monarca di monopolizzare le funzioni di giudice e pacificatore, per sottrarle ad altri membri dell'élite, quindi contro altri membri dell'élite. Questi ultimi, se appartenenti alla genìa dei meritevoli, e come tali riconosciuti dal popolo, hanno capacità e virtù; se invece sono della specie dei razziatori hanno comunque la forza bruta, la determinazione ad usarla, e sanno come usarla. Sono quindi soggetti e famiglie competitivi rispetto al dominante, e potrebbero surclassarlo o annientarlo. La competitività di un monarca, di una dinastia regia, come di qualsiasi altro dominante, tende nella maggior parte dei casi a scadere nel tempo, con l'età del singolo individuo o col passaggio del potere di generazione in generazione. Il combattere a volto scoperto e ad armi pari su quello che possiamo definire il libero mercato sociale diventa un rischio, ovviamente da evitare, truccando le regole naturali del gioco, finché si ha il potere per farlo. Il diritto positivo e la creazione e l'utilizzo di uno stato - apparato clientelare e assistenzialista sono le scorciatoie più comode per realizzare questo imbroglio, per bloccare nella comunità la mobilità verticale e il ricambio delle élites. Il diritto positivo calpesta lo ius naturalis e quindi soffoca l'emergere spontaneo di élites naturali, rifacendosi ad ideologie elaborate da intellettuali prezzolati, che vengono imposte come verità ad un popolo lasciato senza reali strumenti culturali, strumenti che permetterebbero alle masse di confutare e riconoscere come false e formali le ideologie medesime. Storicamente l'applicazione innaturale, forzosa di tali ideologie alle scelte di governo e di organizzazione sociale ha sempre, immancabilmente, portato a catastrofi e sofferenze, anche di dimensioni continentali se non planetarie (si pensi, per tutte, alla ideologia comunista). Sotto il profilo economico, sia il diritto positivo, con il prescrivere contro la natura del mercato la burocratizzazione del mercato medesimo e la scomparsa della libera concorrenza, sia la tassazione, ovvero l'assoggettamento al tributo, sia infine il controllo sull'emissione della moneta e la conseguente voluta inflazione, permettono ai dominanti di stroncare sul nascere l'accumulazione di ricchezze da parte di famiglie concorrenti. Viene così impedita la costruzione di patrimoni a quelle élites che, in assenza di tali vessazioni, sarebbero emerse naturalmente per i loro meriti e le loro capacità, probabilmente ben maggiori di quelli dei dominanti stessi.
Hoppe perde un’occasione di affondare il coltello nella piaga nel momento in cui non approfondisce il formalismo dell’economia keynesiana, l’economia del clientelare e parassitario tassa e spendi, l’economia di carta dei contabili, degli esattori, dei ragionieri di regime. Il keynesianesimo è la trasposizione nel campo delle scienze economiche dell’orientamento al presente che caratterizza le tirannie oligarchiche travestite da democrazie formali delegate. Dopo Keynes la scienza economica è divenuta una scienza formale, mistificante, inducente all’errore. L’architettura keynesiana sia della scienza economica sia dei sistemi economici è stata ufficializzata, accademizzata, assurta al rango di principio scientifico, e adottata perfino dai suoi detrattori, venendo così a costituire una sorta di trappola mentale, di blindatura del pensiero ossequiente. Eppure nulla è più contrario alla realtà della fondamentale equazione keynesiana ricchezza uguale reddito. Ma l’economia vera, sostanziale, è una scienza riservata alla nobilitas naturalis di cui parla Hoppe, a quegli individui e a quelle famiglie che ogni giorno combattono liberamente sul mercato. Proprietà privata e libero mercato sono ragioni di vita che trascendono le possibilità e le stesse esistenze di esattori, contabili e ragionieri, più o meno prezzolati, certo improduttivi.
Rimane anche irrisolta la contraddizione tra indipendenza e mercenarizzazione, intrinseca all’essenza dell’intellettuale. Tuttavia Hoppe sembra in qualche modo rendersene conto nel momento in cui attribuisce un ruolo futuro salvifico più alle élites naturali che a quelle intellettuali. Aggiungo a commento che trovo errato usare il termine élite per designare il ceto intellettuale: la storia la fa sempre chi agisce, non chi si limita a pensare. La funzione dell’intellettuale mi sembra meramente strumentale e assimilabile a quella del manager del settore pubblicitario. La qualità dell’intellettuale può riscattarsi solo nel momento in cui egli svolge esclusivamente opera di deformalizzazione di falsità imposte come verità, per rendere chiara e svelata la sostanza dei rapporti di forza e di depredazione tra dominanti e dominati. Ciò nonostante, l’effetto del suo pensiero si riduce a nulla se le élites naturali, che in quel momento storico stanno subendo i tentativi di depredazione da parte di quelle famiglie di dominanti che si sono appropriate dello stato, non reagiscono. E solo tali élites naturali possono reagire, perché solo loro hanno il know-how necessario per reagire con continuità, accanimento e successo: dalla massa abulica e sapientemente istupidita del popolo, della plebe priva di identità familiare, non ci si può aspettare nulla.
L’ultima cosa da chiedersi è se queste élites naturali esistono oggi o esisteranno più nell’immediato futuro. Hoppe descrive magistralmente la storia recente e il destino odierno delle élites naturali, cioè di quelle élites riconosciute spontaneamente dal popolo per i loro meriti. Con la democratizzazione si ha la definitiva distruzione delle élite naturali e della nobiltà. “I patrimoni delle grandi famiglie vennero dissipati, in vita e nel momento della morte, attraverso la confisca delle tasse. Le tradizioni di indipendenza economica delle casate, di lungimiranza intellettuale, di guida morale e spirituale si persero e furono dimenticate. Di uomini ricchi ve ne sono oggi, ma è frequente che essi debbano le loro fortune direttamente o indirettamente all’apparato statuale. Per cui sono spesso più dipendenti dai continui favori politici di quanto lo siano molti di gran lunga meno facoltosi. Essi non sono più, come una volta, capi di antiche famiglie eminenti, bensì “nouveaux riches”. La loro condotta non è caratterizzata da virtù, saggezza, dignità o gusto, ma è un riflesso della stessa cultura proletaria di massa orientata al presente, dell’opportunismo e dell’edonismo che il ricco e il famoso condividono con chiunque altro. […] La democrazia ha realizzato ciò che Keynes aveva solo sognato: l’“eutanasia della classe dei rentier”. […] Invece di nobilitare i proletari, la democrazia ha proletarizzato le élites ed ha sistematicamente corrotto il pensiero e il giudizio delle masse.”
Un’accurata indagine sociologica sull’origine, la genesi dinastica, e sulle modalità di arricchimento e di conquista della proprietà dello stato da parte delle attuali famiglie dominanti sarebbe di estrema utilità per capire e valutare l’infima qualità dei dominanti medesimi, nonché il loro distruttivo (e autodistruttivo) orientamento al presente.
Temo inoltre che la fossilizzazione delle gerarchie stataliste, ivi comprese quelle originanti dall’economia dei traffici illeciti, blocchi non solo la mobilità verticale ma la stessa possibilità di nuova generazione di élites naturali valide. Rovescerei al riguardo il rapporto causa - effetto proposto da Hoppe: a mio avviso l’esistenza di una élite naturale volontariamente riconosciuta – una nobilitas naturalis – richiede come presupposto sociologico l’esistenza di un’economia basata sulla proprietà privata e sul libero scambio. E questo proprio perché il risultato naturale delle transazioni tra proprietari privati è non ugualitario ed elitario: per effetto della diversità dei talenti umani e grazie alla loro maggior capacità, coraggio, ordine, diligenza, precisione, alcuni individui, alcune famiglie possono raggiungere lo status di élite ed acquisire un’autorità naturale riconosciuta dai loro simili. O meglio, possono farlo se hanno l’ambiente adatto: l’economia di libero mercato. Non possono farlo in un sistema - paese nel quale famiglie dominanti di infima qualità depredano e stroncano sul nascere i possibili competitors tramite l’inflazione e la tassazione, quando non tramite le persecuzioni giudiziarie.
Per concludere, porrei l’accento proprio sulla situazione in cui si trova il dominato consapevole nella società formalmente democratica, e mi piace farlo riprendendo la perfetta descrizione resane da Hoppe: “In contrasto col diritto di autodifesa riconosciuto in caso di attacco criminale, la vittima di aggressioni statali ai diritti di proprietà non può legittimamente difendersi. L’imposizione di una tassa sulla proprietà o sul reddito viola i diritti di un proprietario o di un produttore allo stesso modo del furto. In entrambi i casi la quantità di beni del proprietario o del produttore viene diminuita contro la loro volontà e senza il loro consenso. La creazione di cartamoneta statale (di liquidità) implica una espropriazione della proprietà altrui non meno fraudolenta dell’attività di una banda di falsari. Allo stesso modo, ogni regolamentazione statale che ingiunga ad un proprietario di fare o non fare qualche cosa con i propri beni – oltre la regola che nessuno può danneggiare la proprietà altrui, e che tutti gli scambi devono essere volontari e contrattuali – implica un “esproprio” della proprietà altrui paragonabile ai peggiori atti di estorsione, rapina o distruzione. Ma la tassazione, l’inflazione di cartamoneta e le regolamentazioni statali, diversamente dalle loro equivalenti attività criminali, sono considerate legittime, e la vittima di un’aggressione governativa, a differenza della vittima di un crimine, non ha diritto a difendere e proteggere fisicamente la propria proprietà.”
Cos’altro aggiungere, se non che in Italia, la patria statalista della più alta tassazione e della più alta inflazione, è misconosciuta perfino l’autodifesa contro il crimine, non è permesso il libero porto d’armi agli incensurati, le forze dell’ordine sono volutamente tenute in condizione di non nuocere ai traffici della nuova economia, quella criminale, che sparge soldi in giro…
La responsabilità del nostro sprofondare nell’anti-civiltà, nella povertà, del nostro non pensare e non agire, del nostro non reagire, è solo e interamente nostra.
Immersi in questo regresso di civiltà, non potremo più pensare ad altro, divagarci, rimuovere dalla mente ciò che è sgradevole, perché i nostri patrimoni sono svalutati e indifesi, perché la povertà incombe e troppe famiglie non arrivano più alla fine del mese, troppe imprese chiudono o delocalizzano, troppi immigrati vengono qui ad appropriarsi di ciò che non è loro. In quella che lo Schmerb, nel suo “Il XIX Secolo: Apogeo dell’espansione europea”, definiva “la migliore probabilità di vittoria nella corsa allo sfruttamento delle ricchezze del globo”, altre nazioni, ben serrate nella loro escludente identità, e altri continenti si appropriano del rango di world masters, contro di noi, contro noi sognatori illusi, che divenuti incapaci di costruire per noi un paradiso naturale e umano al tempo stesso, ci rifugiamo in quelli artificiali inesistenti.
Dovremo ricominciare dalla base, dalla nostra mente, dal nostro modo di concepire la vita, dal nostro nucleo identitario individuale, dalla nostra famiglia, dai nostri figli, dal nostro condominio, dalla nostra via, dal nostro quartiere, dal nostro comune…
Dovremo farlo, non vi sono alternative.


Avv. Filippo Matteucci


Nota: Hans-Hermann Hoppe, professore di economia alla University of Nevada di Las Vegas, è un economista nato in Germania, esponente di punta della Scuola Austriaca odierna e filosofo politico libertarian. E’ Distinguished Fellow del Ludwig Von Mises Institute.
La sua notorietà anche in Italia, ambiente ostico e censorio rispetto all’antistatalismo caratterizzante tale Scuola di pensiero, gli deriva, oltre che dal riconoscimento internazionale dell’alta qualità dei suoi scritti, dall’aver insegnato alla Johns Hopkins University di Bologna.
I suoi testi, compresi i due saggi oggetto del presente commento, sono reperibili sul Web sia presso il suo sito personale
http://www.hanshoppe.com/
sia presso il sito del Ludwig Von Mises Institute
http://www.mises.org/ .